L'ambiente

Bomba ambientale: inquinamento da mascherine usa e getta

a cura di Bruno Zucca

129 miliardi di mascherine buttate ogni mese (3 milioni al minuto), fibre di plastica microscopiche smaltite come rifiuti solidi e bruciate negli inceneritori: questi sono i dati allarmanti di un fenomeno di cui gli abitanti del pianeta e gli Stati saranno presto chiamati ad occuparsi. Secondo una ricerca dell’università Milano-Bicocca una mascherina rilascia fino a 173 mila microfibre al giorno [1]. La ricerca dal titolo “The release process of microfibers: from surgical face masks into the marine environment” è stata recentemente pubblicata sulla rivista Environmental Advances [2]. Lo studio è stato condotto da un team di chimici del Dipartimento di Scienze dell'Ambiente e della Terra tra cui Francesco Saliu, Maurizio Veronelli, Clarissa Raguso, Davide Barana, Paolo Galli, Marina Lasagni. «Speriamo che questo nostro lavoro possa sensibilizzare verso un corretto conferimento delle mascherine a fine utilizzo e promuovere l’implementazione di tecnologie più sostenibili», hanno commentato Francesco Saliu e Marina Lasagni, rispettivamente ricercatore e docente del dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra. Lo studio ha approfondito il meccanismo di degradazione foto-ossidativa delle fibre di polipropilene presenti nei tre strati delle mascherine chirurgiche e ha fornito un primo dato quantitativo relativo alla cessione di microplastiche. Per le mascherine, infatti, così come succede per molti altri oggetti di uso quotidiano, il dato relativo alla stabilità oltre il limite di utilizzo non era disponibile in letteratura. Il lavoro sperimentale è stato condotto sottoponendo mascherine usa e getta, disponibili commercialmente, ad esperimenti di invecchiamento artificiale, designati per simulare ciò che avviene nell’ambiente, quando una mascherina abbandonata inizia a degradarsi a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici e, in particolare, alla radiazione solare. Un processo che può durare diverse settimane prima che il materiale giunga al mare, dove è poi sottoposto a stress meccanici prolungati indotti dal moto ondoso. È qui che avviene il maggior rilascio di microfibre. Le misure condotte con tecniche di microscopia elettronica e microspettroscopia infrarossa hanno evidenziato come una singola mascherina chirurgica esposta alla luce UV-A per 180 ore sia in grado di rilasciare centinaia di migliaia di particelle del diametro di poche decine di micron. Gli effetti di queste microfibre sugli organismi marini sono ancora da determinare. A questo proposito è in corso una collaborazione con i ricercatori del MaRHE center, il centro di ricerca e alta formazione dell’Ateneo alle Maldive. Come già acclarato per altre tipologie di microplastiche, quali ad esempio quelle prodotte dalla degradazione dei materiali utilizzati per il confezionamento di alimenti o generate durante il lavaggio di tessuti sintetici in lavatrice, sono possibili sia danni da ostruzione in seguito ad ingestione, sia effetti tossicologici dovuti alla veicolazione di contaminanti chimici e biologici. Preoccupa inoltre la presenza di frazioni sub-micrometriche, potenzialmente capaci di attraversare le barriere biologiche.

Gettata in mare la mascherina viene inghiottita dai pesci che poi ritroviamo nei nostri piatti; gettata ai bordi delle strade si infiltra nelle falde freatiche e finisce nell’acqua potabile. Con una durata di vita di 450 anni, la mascherina sta diventando una vera bomba a orologeria per l’ambiente, con conseguenze durature per la Terra. Anche i guanti costituiscono un grave problema ambientale, se gettati in mare possono essere scambiati per meduse dai delfini e dalle tartarughe marine, che ingerendoli sarebbero condannati a morte certa. Prima della pandemia 8 milioni di tonnellate di plastica venivano disperse in mare ogni anno, ora la cifra può diventare stratosferica. Secondo l’associazione ambientalista francese Mer propre [3] presto nel Mediterraneo ci saranno più mascherine che meduse. 

Occorre cambiare rotta al più presto: non basta denunciare il pericolo, bisogna prendere provvedimenti. La mascherina è il dispositivo di protezione più utilizzato da quando è in atto la pandemia da Covid-19 poiché è leggera e comoda da indossare. Una singola mascherina chirurgica gettata irresponsabilmente dai marciapiedi alle spiagge rilascia migliaia di fibre microscopiche che minacciano l’ambiente marino. Come può accadere che una Società così attenta e scrupolosa nei confronti del pericolo rappresentato dai germi, trascuri il danno alla salute derivato da inquinanti ambientali come polveri sottili, elettromagnetismo, materie plastiche e pesticidi? Forse perché dalla lotta ai microbi ci si può ricavare profitti e dalla prevenzione del danno ambientale non altrettanto? La risposta a questi interrogativi ha un grande significato nell’approccio alla salute dei prossimi trent’anni. Molti campanelli di allarme sono suonati e la sordità delle Istituzioni nazionali ed internazionali, al di là delle belle parole e delle enunciazioni di principio, è diventata insostenibile, come lo sviluppo stesso della società moderna ormai da anni.

[1] https://www.unimib.it/comunicati/inquinamento-mascherina-chirurgica-nellambiente-marino-rilascia-fino-173mila-microfibre-al-giorno

[2] https://doi.org/10.1016/j.envadv.2021.100042

[3]  https://www.montecarlonews.it/2020/05/26/notizie/argomenti/ambiente-1/articolo/piu-mascherine-che-meduse-nel-mar-mediterraneo-lallarme-dellassociazione-operation-me.html