L'ambiente

Inquinamento e malattie

 a cura di Bruno Zucca

65.700 morti complessivi annuali dovuti all'inquinamento atmosferico

Da un recente studio pubblicato a dicembre dall'AEA, l'Agenzia europea dell'ambiente, emerge un dato grave: nel 2018 l'Italia è stata ai primi posti fra gli stati europei per il numero di morti premature annuali dovute all'inquinamento atmosferico. Sono 10.400 quelle per biossido di azoto (NO2), 52.300 quelle causate dal particolato fine (PM2,5) e 3.000 quelle dovute all'ozono troposferico (O3) misurato al suolo. L'Italia è uno dei sei paesi dell'UE che nel 2018 hanno superato il valore limite per il particolato PM2,5. Il 10 novembre scorso l'Italia è stata condannata dalla Corte Europea di Giustizia per la violazione «sistematica e continuata» dei limiti, sia giornalieri che annuali, delle concentrazioni di particolato PM10 nei centri urbani, imposti dalla direttiva UE sulla qualità dell'aria, e per non aver posto rimedio con le misure adeguate a questa inadempienza. Occorrerebbe che le Autorità italiane impegnate nella campagna di prevenzione sanitaria anti-covid-2 considerino questo problema ambientale interconnesso con le numerose morti attribuite alla epidemia nelle zone più industrializzate e urbanizzate. Respirare aria malsana indebolisce vie respiratorie e sistema immunitario in maniera significativa, come documentato da Ciencewicki e Jaspers nel loro studio Air Pollution and Respiratory Viral Infection: è uno studio che esplora anche potenziali meccanismi d’azione, elencando per primo lo stress ossidativo, che possiamo considerare il minimo comun denominatore patogenetico di molte noxae.

Un secondo studio conferma la correlazione tra inquinamento e malattie. Dopo quello precedentemente citato una nuova ricerca documenta i danni dell’inquinamento atmosferico in Europa ed in particolare nelle città del nord Italia. Secondo i dati elaborati dai ricercatori dell’Università di Utrecht, del Global Health Institute di Barcellona e del Tropical and Public Health Institute svizzero [1] hanno il tasso di mortalità da particolato fine (PM2.5) più alto in Europa; tra le prime dieci città ci sono anche Vicenza (al quarto posto) e Saronno (all’ottavo). Per quanto riguarda le morti premature per NO2, invece, ci sono Torino (al terzo posto) e Milano (al quinto). Il lavoro è stato pubblicato su The Lancet Planetary Health e finanziato dal Ministero per l’innovazione spagnolo e dal Global Health. [2] Lo studio analizza i dati di 969 città e 47 metropoli.[3]

I ricercatori del Global Health ritengono che riducendo i livelli di inquinamento dell’aria sotto la soglia indicata dall’Organizzazione mondiale della sanità si potrebbero evitare 51.213 morti l’anno per esposizione a PM2.5 e 900 per NO2. Con politiche più ambiziose si potrebbero prevenire fino a 125mila decessi all’anno intervenendo sui livelli di PM 2.5 e fino a 80mila morti all’anno, riducendo ulteriormente i livelli di NO2.

Inquinamento da polveri sottili e Covid

Un recente studio scientifico fornisce una conferma ancora più stringente del precedente. In esso si sostiene la correlazione diretta tra malattia Covid e PM 2.5. Lo studio è stato condotto da alcuni ricercatori italiani, tra cui Mauro Minelli e Antonella Mattei. Il professor Minelli, immunologo e visitor professor di immunologia clinica nell’Università di studi Europei “J.Monnet” e la dottoressa  Mattei, ricercatrice di Statistica Medica presso il Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università degli Studi dell’Aquila, sostengono la tesi che “gli individui permanentemente esposti a livelli medi o alti di PM2.5 sviluppano, per una alta espressione di ACE2, una sorta di automatica protezione contro l’infiammazione polmonare prodotta da PM2.5 per la micidiale composizione chimica di questa miscela di microinquinanti. Tale particolarità, tuttavia, può non risultare del tutto utile e vantaggiosa nel caso in cui, come accade col Covid-19, il virus responsabile della malattia utilizzi proprio l’ACE2 come recettore della internalizzazione cellulare. Dunque, ACE2 è la ‘serratura’ attraverso la quale il Covid ‘inganna’ la cellula umana, penetra al suo interno, la infetta e, conseguentemente, innesca tutto il processo patologico che caratterizza il quadro clinico”. A questo va aggiunto che “le differenze individuali relative alla distribuzione e alla funzionalità di ACE2 potrebbero spiegare, almeno in parte, la diversa entità dei quadri sintomatologici variamente espressi dai soggetti colpiti. Nei bambini, per esempio, è stato ipotizzato che la loro minore vulnerabilità rispetto al nuovo coronavirus sia imputabile proprio al fatto che i recettori ACE2 possano non essere così sviluppati, ovvero avere conformazione diversa rispetto a quelli degli adulti. E ciò renderebbe più difficile la connessione tra lo spike del virus e la serratura d’ingresso nelle cellule” [4]

L'esposizione al PM 2.5 stimola dunque la produzione nel corpo umano della proteina ACE2 necessaria alla protezione dell’organismo dai danni delle polveri sottili; tale proteina è nota come serratura d’ingresso del virus Sars cov-2 e ritenuta responsabile del suo ingresso agevolato nel corpo. Per chi volesse approfondire lo studio è stato pubblicato da International Journal of Enviromental Research and Public Health.[5]

Lo studio evidenzia come l’emergenza sanitaria in corso sia strettamente connessa ad uno specifico fattore inquinante. Le città del nord potrebbero dunque essere più colpite a causa della massiva esposizione ad alti livelli di PM2.5. È per questo motivo allora che in zone inquinate come Taranto, caratterizzate da bassi livelli di PM2.5, la diffusione della malattia non è stata così elevata come in Lombardia e Veneto, dove questi livelli sono più alti. La reale impossibilità ad abbattere significativamente questo tipo di inquinamento potrebbe giustificare il perdurare dell’epidemia.

Da decenni l’84% della popolazione delle città europee è esposta a livelli di inquinamento da PM 2.5 e NO2 superiori ai limiti legislativi; negli ultimi anni le strutture sanitarie non sono più in grado da sole di porre rimedio alle gravi conseguenze del danno ambientale. 

[1] Premature mortality due to air pollution in European cities: a health impact assessment - leggi articolo completo
[2] Inquinamento atmosferico e smog: Brescia e Bergamo prime in Europa per mortalità da polveri sottili - leggi articolo completo
[3] Bergamo e Brescia prime in Europa per morti da smog - leggi articolo completo
[4] Covid, lo studio italiano: “Sono le polveri sottili e non l’inquinamento in generale a influire su contagi e mortalità” - leggi articolo completo
[5] Associations between COVID-19 Incidence Rates and the Exposure to PM2.5 and NO2: A Nationwide Observational Study in Italy - vedi abstract

 

Bomba ambientale: inquinamento da mascherine usa e getta

a cura di Bruno Zucca

129 miliardi di mascherine buttate ogni mese (3 milioni al minuto), fibre di plastica microscopiche smaltite come rifiuti solidi e bruciate negli inceneritori: questi sono i dati allarmanti di un fenomeno di cui gli abitanti del pianeta e gli Stati saranno presto chiamati ad occuparsi. Secondo una ricerca dell’università Milano-Bicocca una mascherina rilascia fino a 173 mila microfibre al giorno [1]. La ricerca dal titolo “The release process of microfibers: from surgical face masks into the marine environment” è stata recentemente pubblicata sulla rivista Environmental Advances [2]. Lo studio è stato condotto da un team di chimici del Dipartimento di Scienze dell'Ambiente e della Terra tra cui Francesco Saliu, Maurizio Veronelli, Clarissa Raguso, Davide Barana, Paolo Galli, Marina Lasagni. «Speriamo che questo nostro lavoro possa sensibilizzare verso un corretto conferimento delle mascherine a fine utilizzo e promuovere l’implementazione di tecnologie più sostenibili», hanno commentato Francesco Saliu e Marina Lasagni, rispettivamente ricercatore e docente del dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra. Lo studio ha approfondito il meccanismo di degradazione foto-ossidativa delle fibre di polipropilene presenti nei tre strati delle mascherine chirurgiche e ha fornito un primo dato quantitativo relativo alla cessione di microplastiche. Per le mascherine, infatti, così come succede per molti altri oggetti di uso quotidiano, il dato relativo alla stabilità oltre il limite di utilizzo non era disponibile in letteratura. Il lavoro sperimentale è stato condotto sottoponendo mascherine usa e getta, disponibili commercialmente, ad esperimenti di invecchiamento artificiale, designati per simulare ciò che avviene nell’ambiente, quando una mascherina abbandonata inizia a degradarsi a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici e, in particolare, alla radiazione solare. Un processo che può durare diverse settimane prima che il materiale giunga al mare, dove è poi sottoposto a stress meccanici prolungati indotti dal moto ondoso. È qui che avviene il maggior rilascio di microfibre. Le misure condotte con tecniche di microscopia elettronica e microspettroscopia infrarossa hanno evidenziato come una singola mascherina chirurgica esposta alla luce UV-A per 180 ore sia in grado di rilasciare centinaia di migliaia di particelle del diametro di poche decine di micron. Gli effetti di queste microfibre sugli organismi marini sono ancora da determinare. A questo proposito è in corso una collaborazione con i ricercatori del MaRHE center, il centro di ricerca e alta formazione dell’Ateneo alle Maldive. Come già acclarato per altre tipologie di microplastiche, quali ad esempio quelle prodotte dalla degradazione dei materiali utilizzati per il confezionamento di alimenti o generate durante il lavaggio di tessuti sintetici in lavatrice, sono possibili sia danni da ostruzione in seguito ad ingestione, sia effetti tossicologici dovuti alla veicolazione di contaminanti chimici e biologici. Preoccupa inoltre la presenza di frazioni sub-micrometriche, potenzialmente capaci di attraversare le barriere biologiche.

Gettata in mare la mascherina viene inghiottita dai pesci che poi ritroviamo nei nostri piatti; gettata ai bordi delle strade si infiltra nelle falde freatiche e finisce nell’acqua potabile. Con una durata di vita di 450 anni, la mascherina sta diventando una vera bomba a orologeria per l’ambiente, con conseguenze durature per la Terra. Anche i guanti costituiscono un grave problema ambientale, se gettati in mare possono essere scambiati per meduse dai delfini e dalle tartarughe marine, che ingerendoli sarebbero condannati a morte certa. Prima della pandemia 8 milioni di tonnellate di plastica venivano disperse in mare ogni anno, ora la cifra può diventare stratosferica. Secondo l’associazione ambientalista francese Mer propre [3] presto nel Mediterraneo ci saranno più mascherine che meduse. 

Occorre cambiare rotta al più presto: non basta denunciare il pericolo, bisogna prendere provvedimenti. La mascherina è il dispositivo di protezione più utilizzato da quando è in atto la pandemia da Covid-19 poiché è leggera e comoda da indossare. Una singola mascherina chirurgica gettata irresponsabilmente dai marciapiedi alle spiagge rilascia migliaia di fibre microscopiche che minacciano l’ambiente marino. Come può accadere che una Società così attenta e scrupolosa nei confronti del pericolo rappresentato dai germi, trascuri il danno alla salute derivato da inquinanti ambientali come polveri sottili, elettromagnetismo, materie plastiche e pesticidi? Forse perché dalla lotta ai microbi ci si può ricavare profitti e dalla prevenzione del danno ambientale non altrettanto? La risposta a questi interrogativi ha un grande significato nell’approccio alla salute dei prossimi trent’anni. Molti campanelli di allarme sono suonati e la sordità delle Istituzioni nazionali ed internazionali, al di là delle belle parole e delle enunciazioni di principio, è diventata insostenibile, come lo sviluppo stesso della società moderna ormai da anni.

[1] https://www.unimib.it/comunicati/inquinamento-mascherina-chirurgica-nellambiente-marino-rilascia-fino-173mila-microfibre-al-giorno

[2] https://doi.org/10.1016/j.envadv.2021.100042

[3]  https://www.montecarlonews.it/2020/05/26/notizie/argomenti/ambiente-1/articolo/piu-mascherine-che-meduse-nel-mar-mediterraneo-lallarme-dellassociazione-operation-me.html