Il periodo che stiamo vivendo da quasi un anno a questa parte, legato all’emergenza Covid-19, ci ha costretti a leggere il mondo con uno sguardo e un pensiero nuovi, sovvertendo le nostre sicurezze; questo cambiamento riguarda la popolazione in generale e anche, ovviamente, tutte le figure professionali che intervengono nella relazione d’aiuto.
La pandemia è arrivata all’improvviso e ha sovvertito l’ordine a cui eravamo abituati, sia sotto l’aspetto prettamente sanitario che sotto quello psicologico.
Alle implicazioni strettamente mediche si aggiungono quindi gli aspetti legati al malessere psicologico individuale e sociale: abbiamo dovuto affrontare la paura di ammalarci e di morire, la paura che potesse succedere ai nostri cari, molti fra noi hanno dovuto affrontare lutti e separazioni. L’ospedalizzazione, soprattutto nel primo periodo, è stata vissuta come un pericolo sia per la malattia che per l’isolamento a cui pazienti e parenti sono stati sottoposti. Abbiamo dovuto affrontare la paura di perdere il lavoro, di non poter mantenere noi stessi e la nostra famiglia, e anche le difficoltà economiche di una cassa integrazione che non arrivava.
Abbiamo dovuto affrontare la difficoltà di reinventarci un nuovo modo di lavorare, di studiare, di insegnare, di accudire i figli e i nipoti, di non poterli vedere, di poter proseguire le relazioni affettive soltanto attraverso lo schermo di un computer o il display di un telefono.
Abbiamo dovuto spiegare ai bambini che non potevano vedere gli amici e le maestre, anche a quei bambini delicati a cui cercavamo di insegnare il contatto, per loro così difficile, fino a qualche settimana prima.
Abbiamo perso il contatto materiale con il prossimo, la pelle, la vicinanza.
Abbiamo quindi dovuto fare affidamento sulla nostra resilienza immunologica e psicologica. Come operatori, abbiamo anche dovuto aiutare gli altri ad affrontare quello che era già difficile affrontare per noi.
Rinuncia alla cura e ritardo diagnostico
Tutto questo, che è vero per la maggior parte degli individui, se rapportato alle fasce più bisognose della popolazione, già in difficoltà prima dell’emergenza, assume dimensioni e proporzioni di gran lunga maggiori.
Sono purtroppo sempre più numerosi i casi in cui nemmeno la sussistenza è garantita, e sono questi i casi in cui il benessere fisico e psicologico è ovviamente relegato in secondo piano rispetto alla mera sopravvivenza.
Le cure in emergenza sono certamente ancora garantite dal SSN, ma sono in sensibile aumento i ritardi nelle diagnosi non “percepite” urgenti e il differimento delle cure mediche e psicologiche, con gravi conseguenze sulla salute del singolo e sulla società.
Ritardare le diagnosi (per paura dell’ospedalizzazione, ora percepita come ostile, o per oggettive lunghe attese) o non occuparsi della salute mentale (che è presupposto anche della salute fisica) porta ad aggravamento di patologie che potrebbero essere curate con successo: si stima un aumento del 30% di mortalità per patologie cardiache dovuto a intempestività diagnostica, e un analogo aumento di incidenza di suicidi e di aggravamenti di patologie psichiatriche. Soltanto da marzo a settembre 2020, infatti, si contano più di 70 suicidi e circa 50 tentativi di suicidio ritenuti connessi in maniera diretta o indiretta al coronavirus: oltre alle conseguenze della crisi finanziaria pesano anche l’isolamento sociale, lo stigma nei confronti di chi ha contratto la malattia e dei loro familiari, il peggioramento di un disagio psichico già presente ed esasperato dalle difficoltà emerse con la pandemia. Queste carenze assistenziali riguardano tutti, ma soprattutto i soggetti in difficoltà sociale, economica o sanitaria potenzialmente a rischio, con bisogni di salute trascurati.
Il nostro gruppo è abituato a lavorare con le fasce deboli, per alcuni versi “allenate” a fare i conti con molte avversità della vita e quindi, per certi aspetti, più resilienti e capaci di ottimizzare le richieste e le risposte. Il pericolo, in questi casi è che le risposte siano solo assistenziali, non sostenenti il processo di individuazione ed autonomia dei soggetti.
Nuove difficoltà, nuovi bisogni
È però emerso un aspetto a nostro parere nuovo, rappresentato da una richiesta di aiuto differente, meno esplicita, proveniente da una fascia diversa della popolazione, che comprende anche i pazienti che di solito si rivolgono alle medicine non convenzionali. Sono persone che, consapevoli di quanto sia importante “prendersi cura di sé” in un’ottica di prevenzione alla malattia e quindi di mantenimento della salute psico-fisica, non possono più farlo, per esempio perché hanno perso il lavoro, o sono stati costretti per lunghi mesi ad interrompere le loro attività di cura e sociali, e per cui il pericolo della rinuncia alla cura è concreto.
In queste circostanze, soprattutto nell’ultimo periodo, la ragione iniziale per cui vengono richiesti interventi terapeutici passa sempre attraverso il coronavirus. Le richieste arrivano da chi ha subito danni o perdite dirette, come lutti in famiglia, o sequele fisiche o psichiche correlate al Covid-19, che ha in qualche modo scoperchiato il dolore degli individui, le loro paure, il senso di insicurezza e fragilità, e li ha messi in contatto con ciò che di più profondo già c’era, nascosto dalla normalità e dalla routine che negli ultimi mesi si è rotta.
Secondo le stime dell'OSMed (Osservatorio Medico) già nel 2019 il consumo di benzodiazepine a effetto ansiolitico è cresciuto del 2,5% e per quelle a effetto ipnotico la crescita è stata del 7%. Nel 2020 la crescita è stata ancora più marcata, soprattutto con la ripresa delle restrizioni durante l’autunno, come si può vedere dal grafico ottenuto dai dati AIFA, che non differenzia però i diversi gruppi di individui che ne hanno fatto richiesta.
Il ricorso all’aiuto psicologico e alle tecniche corporee per la gestione dell’ansia e dello stress, in un frangente come questo, può essere d’aiuto nel ridurre il consumo di farmaci non scevri da effetti collaterali anche severi, soprattutto se assunti a lungo termine come spesso accade per ansiolitici ed ipnotici. L’efficacia del lavoro in rete di operatori con diverse competenze è poi rivelatore della reale interdipendenza tra le figure professionali coinvolte ed i pazienti. Diventa importante, in quest’ottica, fornire loro le migliori informazioni per “farli sentire al sicuro”, per aiutarli a gestire il vissuto di abbandono e di solitudine, ad affrontare paure realistiche, non minimizzate né ingigantite dal contesto sociale, e ad adottare delle misure auto protettive concrete, sia fisiche che psicologiche, che rappresentano sempre il miglior percorso e processo terapeutico per ciascuno di noi.