a cura di Bruno Zucca
Il processo di invecchiamento biologico si accompagna inevitabilmente all’invalidità, all’inefficienza fisica e mentale, alla malattia ed al dolore. La paura della malattia e della morte possono trasformare il vissuto di chi invecchia in una sensazione di condanna e punizione ostacolando il necessario riconoscimento del valore e del senso della propria esistenza. Importanti talenti umani possono però emergere parallelamente al processo involutivo che accompagna la senescenza, in primis saggezza ed equilibrio.
La malattia nella sua essenza è caratterizzata da sofferenza fisica, emotiva, mentale ed esistenziale, ma viene spesso trattata nell’anziano con un approccio soltanto farmacologico o chirurgico all’interno di un’ottica ripartiva. Tutto questo è certamente utile e prezioso dal momento che consente alla macchina corporea, divenuta inabile, di perdurare. Quando però ci si limita ad aggiustare gli ingranaggi biologici usurati ed inceppati e ci si dimentica della psiche che abita in quella “macchina”, non si aiuta veramente l’individuo e la sua evoluzione. Durante la terza età l’anima psichica ha infatti bisogno di essere rivisitata biograficamente e psicologicamente per cogliere il significato nascosto dell’esistere. Di questo si occupano da sempre filosofia, religione e psicologia, ognuna con la sua specifica competenza.
Occorre che anche la medicina si riappropri di questo sguardo più profondo dentro all’essenza umana. Negli ultimi 30 anni la medicina ha infatti sviluppato un approccio più profondo al dolore fisico ed emotivo. La stessa medicina psicosomatica ha offerto il suo contributo ad una visione del malato nella sua globalità. Nel cuore di ogni individuo abita un interrogativo esistenziale nascosto dietro alle paure e alle angosce, così come dietro ad ogni disturbo corporeo. L’azione curativa deve pertanto essere finalizzata a trasformare questa angoscia in serena consapevolezza, il dolore fisico in emozioni vitali e, quando ciò non è possibile, a mitigarla aiutando il malato a convivere con essa.
Qualsiasi approccio terapeutico deve pertanto promuovere nell’individuo sofferente serenità, distacco emotivo, vitalità fisica, attivando in questo modo i processi biologici auto curativi. Deve favorire la consapevolezza delle emozioni, delle proprie qualità, dei limiti, dei desideri, delle fantasie, delle paure e, conseguentemente a ciò, il superamento dei conflitti, tappa imprescindibile del processo di risanamento profondo. Per riequilibrare l’energia vitale, oltre ai farmaci e ad una sana alimentazione, occorre perciò occuparsi anche delle ansie e delle tristezze del malato. L’angoscia esistenziale che emerge prepotentemente nella Terza età è caratterizzata da una sensazione di mancanza e privazione; si tratta di una ferita dolorosa che contiene in sé però anche la forza necessaria al suo superamento.
Da un punto di vista filosofico l’angoscia nasce con noi e precede le ferite psicologiche successive legate alle situazioni della vita; essa è la declinazione individuale della ferita ontologica comune al genere umano ed è tutt’uno con l’angoscia di morte e finitudine. È congenita ed archetipica, cioè strutturale e per questo non completamente curabile. Ogni essere umano ha una sua specifica sensazione di mancanza e deve per questo essere trattato in maniera personalizzata; la sensazione di privazione di una determinata qualità costituisce la causa psicologica profonda di numerose malattie: ogni individuo soffre di una ipersensibilità specifica ai comuni problemi dell’esistenza, nei confronti dei quali reagisce in maniera estremamente soggettiva. Per non sentire il dolore esistenziale reagisce difensivamente indossando una corazza od un cilicio somatici attraverso i quali vengono negate od esaltate patologicamente in maniera compensatoria le attitudini di cui si sente privo, oppure finisce per identificarsi autocommiserativamente o distruttivamente con il dolore esistenziale.
Per poter essere guarita la sensazione di mancanza e privazione che abita nel cuore umano deve essere compresa, accolta ed amata: con l’aiuto di un approccio terapeutico non superficiale questo processo è possibile.
Esistono centinaia di tipologie patologiche, ad ognuna di esse dovrebbe corrispondere un approccio terapeutico specifico, che tratti non solo il sintomo fisico ma anche la sindrome psicosomatica reattiva insieme a tutto ciò che le sta dietro. Questo potrebbe attivare meccanismi neurobiologici assopiti e stimolare processi di guarigione organici.
Una terapia medica umanistica e personalizzata dovrebbe ricaricare la “batteria energetica” che a causa dell’invecchiamento è esaurita, consentendo alla lampadina della consapevolezza di riaccendersi. Grazie a questo approccio curativo la domanda che il dolore fisico, emotivo ed esistenziale pone può trovare una risposta lenitiva. Dietro ad un dolore fisico infatti c’è sempre una sofferenza emotiva: per aiutare la guarigione occorre mitigarla e promuoverne la consapevolizzazione.
All’interno di un percorso di medicina umanistica la sofferenza di una vita può infatti essere restituita al suo significato nascosto e la sensazione di solitudine e di abbandono caratteristiche della terza età possono trovare sollievo, recuperando l’esperienza della gioia, del bello e del bene che molte persone racchiudono come potenzialità inespresse. Questo integrerebbe l’azione indubbiamente utile di un psicofarmaco perché promuoverebbe una autentica serenità nell’individuo che invecchia.
Aiuteremmo in questo modo gli anziani a valorizzare i propri talenti, ad ancorarsi al valore dell’attimo presente senza proiettarsi troppo nel passato, con rimpianti e risentimenti, o nel futuro, con pretese ed apprensioni.
Li aiuteremmo a ritrovare nel “qui e ora” il baricentro di equilibrio e saggezza. Li sosterremmo nel tentativo di non darsi troppo da fare per riempire nevroticamente a tutti i costi il tempo, li aiuteremmo a valorizzare i silenzi ed i tempi vuoti con la riflessione, a non intorpidire il bene presente acquisito con il desiderio di ciò che manca, ad essere grati a ciò che è già stato conseguito.